Titolo: La famiglia Fang (originale: The Family Fang)
Autore: Kevin Wilson
Editore: Fazi, 2012
Traduzione: Silvia Castoldi
Pagine: 397
Caleb e Camille Fang sono sposati e hanno deciso di fare
della propria vita uno spettacolo continuo, nel quale hanno coinvolto da sempre
anche i due figli, due bambini, Annie e Buster. A e B – come li chiamano i
genitori, spacciandoli per nomi d’arte – sono parte integrante delle loro continue
e assurde performance caratterizzate da un intento provocatorio nei confronti
del pubblico il quale – di volta in volta – si ritrova, ignaro e in situazioni
ordinarie, ad assistere ad eventi che creano confusione e lasciano il segno.
Uno dei set privilegiati dai Fang è il centro commerciale, dove possono
sbizzarrirsi e inscenare meglio le loro “sceneggiature” e dove il pubblico
passivo è sempre presente. Spesso, nelle messinscena recitano la parte di
persone estranee tra loro e si calano perfettamente nel personaggio. Il
risultato ultimo delle loro performance è una perplessa e sbalordita confusione
tra chi vi ha assistito e la loro intima soddisfazione di aver generato caos,
di aver smosso le acque. Perché questo? Per puro amore verso l’arte. Sì, perché
i Fang hanno sempre in bocca questa parola. Arte, arte, arte. Amore per l’arte.
I signori sono artisti, mica ciccia. Sono artisti e sono fieri di esserlo. Sono
fieri di aver dato se stessi e i loro figli alla mamma arte. Non importa se
privano i figli di una vita normale, tranquilla. Non importa se li privano di
genitori normali. Non importa neanche se non hanno dato ai loro figli alcuna
possibilità di scelta. Sono, anzi, estremamente convinti che i bambini siano
stati fortunati perché figli dell’arte in quanto figli loro.
Eh beh, sì. Come dire che due più due fa quattro, no?
Sorvoliamo. Due personcine che tutti vorrebbero avere come genitori, insomma.
Durante l’adolescenza di Annie e Buster, succede qualcosa
che fa decidere i ragazzi per l’allontanamento definitivo dai genitori. Caleb e
Camille, infatti, superano il limite durante un’occasione ben precisa, che
verrà svelata a storia inoltrata.
Ormai adulti, i due ragazzi si destreggiano tra gli eventi
delle rispettive vite, finalmente liberi da tempo dalla presenza opprimente e
totalizzante dei genitori. Annie è diventata un’attrice, mentre Buster ha
scritto un paio di romanzi. Un giorno, però, a causa di un incidente, Buster si
trova a dover tornare a casa per la convalescenza e Annie, vista la sua situazione
abbastanza problematica sia sul piano lavorativo che su quello sentimentale, si
lascia convincere dal fratello e decide alla fine di correre in suo aiuto per
non lasciarlo solo coi genitori e torna a casa anche lei.
I genitori sono naturalmente invecchiati, eppure l’incubo
ricomincia nel momento stesso in cui si ritrovano di nuovo tutti e quattro
insieme. Proprio come ai vecchi tempi. Caleb e Camille si illudono che tutto
possa tornare come un tempo – una botta in testa no, eh? – e sono al settimo
cielo. Cercano di coinvolgere da subito i figli in una nuova performance, che
però non finisce come previsto e falliscono.
Qualche giorno dopo, si verifica l’evento cardine
della storia. Quello che rappresenta la svolta e il turning point del libro. I genitori scompaiono in un modo che non
lascia presagire nulla di buono. A quel punto i ragazzi sono sballottati tra i
pensieri più disparati e mentre la polizia crede in una tragedia, Annie è
fermamente convinta che sia l’ennesima messinscena e che lei e Buster non
abbiano scampo. Devono per forza prendere parte al “gioco”. Inizia il viaggio
dei due fratelli, l’incontro con un personaggio che potrebbe aiutarli e la
scoperta di alcuni fatti. La fine del viaggio corrisponderà alla scoperta di
numerose verità.
Il mio giudizio personale è positivo. È un racconto strano,
innanzitutto per il modo in cui è scritto. Ha uno stile asciutto, non
pretenzioso, semplice e senza inutili fronzoli. Forse non è una scrittura molto
affinata e ricercata, ma è spontanea e sa essere introspettiva in modo diverso
dal solito e questo mi è piaciuto. Ho apprezzato il fatto che non è uno di quei
libri che ti fa pensare che se avessee occupato la metà delle pagine impiegate
sarebbe stato meglio. Strano anche e soprattutto per la storia non
convenzionale, i contenuti e le tematiche. Sebbene all’inizio alcuni potrebbero
faticare ad ingranare, una volta inserita la marcia giusta si comincia ad
entrare nel vivo degli eventi fino ad arrivare verso metà libro, dove la svolta
fa sì che da quel punto in poi sia difficile non essere curiosi di sapere cosa
accadrà dopo.
La struttura del romanzo è divisa in due piani temporali,
infatti si alternano capitoli in cui leggiamo dei flashback – precisamente, di
volta in volta l’autore racconta una performance della famiglia Fang, partendo
dagli anni in cui Annie e Buster erano bambini – a capitoli in cui leggiamo
della vita attuale dei ragazzi e continuiamo a seguirli nel corso degli eventi.
Penso che questo tipo di scelta sia congeniale alla storia. In questo modo,
infatti, ci destreggiamo senza problemi tra eventi del passato, ciò che hanno
provocato e le loro conseguenze sul presente e sui componenti della famiglia. Mi
è piaciuta la scelta dei titoli dei capitoli sulle performance, ma non svelo
nulla.
Inizialmente si fa fatica ad inquadrare i personaggi di
Annie e Buster adulti e la loro caratterizzazione sembra carente, ma man mano
che le istantanee del passato si avvicinano al presente ci appare sempre più
chiara la loro personalità.
Annie ha solo due anni più di Buster, ma si comporta da
sorella maggiore a tutti gli effetti, da sempre. Lo protegge, lo conforta e
assume la guida anche nell’età adulta. Quasi a sopperire le mancanze date dal
comportamento dei genitori. Sembra sempre lei la più forte.
Un aspetto molto importante, questo del rapporto tra i due
fratelli. L’autore riesce a trasmettere costantemente la loro unione fin
dall’infanzia e la loro tacita rassegnazione/consapevolezza rispetto alla
situazione familiare. Questi due ragazzi sono stati fin da bambini vittime di
genitori che definire sopra le righe sarebbe usare un eufemismo. Tutto in nome
di cosa? Ah, sì, dell’arte. Per quanto si possa essere appassionati d’arte - o
forse proprio se lo si è – si inorridisce nel leggere di determinati
atteggiamenti, convinzioni o dialoghi dei genitori.
Non ci si capacita di come possano essere così ottusi. Sono
due personaggi che avrei volentieri preso a cartoni per quasi tutto il libro.
La bravura di Wilson, a mio parere, è stata proprio quella di trasmettere
queste sensazioni. Se la sua intenzione fosse quella di trattare l’argomento
con un approccio di “denuncia”, direi che ci è riuscito. Coniuga la leggerezza
negativa, l’ingenuità, l’ego dei genitori e ciò che fanno nella vita con le
conseguenze che le loro azioni e le loro scelte hanno avuto sui loro figli.
Questi due individui hanno completamente spersonalizzato i figli fin da
bambini. Hanno imposto la loro scelta di vita e li hanno fatti sentire in
dovere di partecipare a qualcosa a cui non avrebbero mai potuto sottrarsi solo
per il fatto di essere nati in quella famiglia. Hanno privato i figli del loro
individualismo e della loro identità, detto in altre parole.
Se decidete di leggere questo libro, vi capiterà di
assistere a scene assolutamente assurde e vi verrà parecchio nervoso. Vi pruderanno
le mani. Insomma, avrete voglia di prendere a cartellate quei due deficienti,
su.
Una breve riflessione sulla copertina, a questo proposito.
Sono stata attirata proprio da quella e dal titolo. Un’illustrazione semplice,
colorata, ma strana. Interessante, ma con un che di inquietante. Fa presagire
in modo efficace l’essenza della famiglia e della scelta di vita di Caleb e
Camille imposta ai figli. Sulla copertina Annie e Buster, infatti, sono
ritratti con due maschere. Il loro viso non si vede. Sono privi di una vera
identità.
Il finale è a sorpresa e, anche lì, la voglia di prenderli a
schiaffoni mi è rimasta. Lieto fine per i ragazzi che, almeno – non dico come,
non dico cosa, non dico perché – riescono finalmente a liberarsi di questi due
genitori ingombranti e a dare un taglio netto con la vita insieme a loro.
P.s.: tarlo personale. Fin dall’inizio, visto il contesto di
vita familiare e la particolarità della storia, ho subito pensato che la scelta
del nome di Buster fosse dovuta al grande Buster Keaton, uno dei maestri del
cinema comico muto. Nel corso del libro poi, viene infatti citato un paio di
volte in un altro contesto. Nessuno mi toglie dalla testa che il furbastro
Wilson abbia scelto quel nome di proposito. Diventa palese.
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